I curdi combattono per avere “casa” e “diritti” ma le persecuzioni continuano. E l’Occidente sta a guardare.
Il 9 ottobre 2019 la Turchia – guidata dal presidente-dittatore Erdogan – lancia l’offensiva di guerra, assieme alle forze dell’esercito libero siriano, contro i curdi nella regione del Rojava, a nord-est della Siria. Ironia della sorte, l’operazione si chiama “Fonte di Pace”. Il colmo si può dire. Già! Questo per il semplice motivo che i partiti curdi, come il noto PKK (Partito Autonomo dei Lavoratori del Kurdistan), sono considerati gruppi terroristici alla stregua dell’ ISIS o di Al-Qaeda. “L’esercito turco ha avviato con l’Esercito siriano libero (Els) l’operazione Fonte di pace contro le organizzazioni terroristiche Isis e Pkk-Ypg”: così twitta il presidente turco dopo poco l’inizio degli attacchi. I curdi, in Turchia, rappresentano circa un quinto della popolazione totale ma la loro identità e la loro lingua non sono né tutelati né – tanto meno – riconosciuti. Dal 1984 al 1999 il PKK, in risposta alla repressione dell’esercito turco che portò alla distruzione di 3.000 villaggi, opera una serie di attentati terroristici nel paese i quali ebbero come conseguenza la morte di oltre 37.000 vittime. Questa è la ragione per cui i curdi, compresi la maggioranza di coloro che non hanno legami né col PKK, né con nessun altro partito politico, vengono considerati lo stesso dei terroristi.
L’obiettivo – stando a quanto dichiarato da Erdogan – è di creare una zona di sicurezza affinché i terroristi non abbiano più alcuna possibilità di entrare nel paese. Pazienza se per raggiungere tale obiettivo sia necessario violare l’integrità nazionale della Siria e mandar via i curdi dal posto che considerano casa.
L’Occidente, forte del suo moralismo ipocrita, ha condannato l’azione militare: il presidente Trump l’ha definita una “cattiva idea” eppure non ha esitato a ritirare i soldati americani dal confine turco-siriano; l’Italia e la Germania hanno bloccato la vendita di armi alla Turchia, una misura assolutamente insufficiente ed iniqua e Putin ha semplicemente condannato l’azione militare e l’aggressione ad uno stato sovrano (ed alleato) quale è la Siria. Forte della minaccia di far entrare migliaia di clandestini in Europa, Erdogan ha promesso di non retrocedere di un passo e di andare dritto per la sua strada mettendo ben in chiaro che non annuncerà mai un cessate il fuoco.
Fortunatamente, gli Stati Uniti hanno strappato una tregua di cinque giorni per consentire ai curdi e alle sue milizie di ritirarsi, anche se sono giunte terribili notizie sull’uso di armi chimiche, come il napalm ed il fosforo bianco nei confronti dei civili: sono molti – troppi – i video in cui vengono ripresi bambini ustionati dai gas. Quell’area strategica vede sempre meno coinvolta l’America e più protagonista la Russia: infatti, il presidente Putin, facendo da garante tra la Turchia e la Siria, promettendo alla prima di cacciare i miliziani curdi e di ridare il controllo del Kurdistan siriano, è “per ora” riuscito a far cessare la guerra.
Per ora! Il popolo curdo, dalla nascita della Repubblica di Turchia nell’ottobre del 1923, è sempre stata in conflitto o, perlomeno, non ha mai avuto rapporti pacifici con il governo centrale. Quando parliamo del Kurdistan, ossia della zona abitata – appunto dai curdi – ciò che ci balza in mente a è quella zona compresa tra Turchia e Siria, l’area dove la repressione è stata maggiormente logorante.
Il Kurdistan, invece, è ampiamente vasto: esso copre una zona di oltre 450 chilometri quadrati che va dal nord-est della Siria fino all’Iran, passando per l’Iraq. Sia in Turchia, che in Siria, che in Iraq, che in Iran, l’etnia curda non ha mai avuto vita facile e ha sempre dovuto lottare, pagando il prezzo di tante vite che si sono immolate per la libertà ed il riconoscimento della propria cultura e dei propri diritti.
Dopo il ritiro delle truppe sovietiche, dal 1945 nel Kurdistan iraniano i curdi sono rappresentati dal “Partito Democratico del Kurdistan Iraniano” e dal “Partito della Libertà del Kurdistan” (PJAK); in Iraq, i curdi furono perseguitati da Saddam Hussein, tant’è vero che nell’operazione “Anfal” del 1987 furono uccise ben 182.000 persone attraverso raid con l’utilizzo di armi chimiche e che, nel 2005, costò a personaggi di spicco del vecchio regime l’accusa di “genocidio” da parte del tribunale internazionale dell’Aia e, nel 2007, la condanna a morte da parte di un tribunale iracheno. Avendo combattuto, nel 2006, a fianco degli Americani nella seconda guerra del Golfo (quella che portò alla pubblica condanna a morte di Saddam Hussein) i curdi si meritarono il riconoscimento nella Costituzione Federale dell’Iraq, dell’autonomia del Kurdistan iracheno e, di conseguenza, la tutela della loro lingua, dei loro usi e dei loro costumi; in Siria, invece, pur rappresentando l’11% della popolazione, i curdi non godono di alcun riconoscimento legislativo: la lingua curda è bandita in televisione, in radio e nei giornali; negli anni ’60 molti insegnanti curdi furono deportati in altre zone del paese e nel 1963, fu tolta la cittadinanza siriana a 100.00 curdi per finire con gli anni ’70 dove migliaia di siriani curdi furono arrestati o torturati per essere stati colti in possesso di opere di lingua curda.
La grande sfortuna del popolo curdo, probabilmente, sta nel vivere in una zona tra le più ricche di petrolio al mondo. In caso contrario, probabilmente, avrebbe già ottenuto la propria autodeterminazione con un proprio stato, con confini ben definiti.
L’unicità di questo popolo sta nella loro peculiare concezione della società, molto differente da quella degli altri popoli mediorientali. Basti osservare le donne, che sono libere, indipendenti, parte attiva del tessuto sociale, dove la democrazia la fa da padrona. Il loro impegno è una panacea anche per noi europei, perché riesce a debellare pericoli come l’ISIS, proprio da loro affrontato e combattuto.
Proprio per questa, e per moltissime altre battaglie, i curdi ogni giorno mostrano all’umanità che cos’è il loro coraggio; spesso invece, l’umanità mostra loro esclusivamente il suo egoismo.