Il razzismo, una vecchia storia che ancora attanaglia l’Italia

Napoli colera. Due parole che diventano uno slogan sadico, un must da tifoseria dove le curve diventano cartina al tornasole di un paese ancora flagellato dal virus razzista incubato nelle radici culturali italiane.

Mario Balotelli fischiato a Verona, deriso dai “buu” di un gruppo di tifosi dell’Hellas durante il match tra la squadra scaligera e il Brescia di super Mario. L’ex giocatore di Inter e Milan scalcia il pallone che si frappone fra il cielo e il settore dei tifosi di casa. Un gesto di rabbia, un gesto istintivo, un calcio a chi ancora fatica ad accettare l’arretramento di paese che spesso cammina di pari passi con la fatiscenza di impianti sportivi inadeguati e di esempi di razzismo di pessima fattura.

Ciò che a volte segue determinati episodi diventa spesso peggio dell’atteggiamento stesso, come la mitizzazione di quanto avvenuto da parte di uno dei capo ultrà veronesi. Luca Castellini che non considera del tutto italiano Mario Balotelli nato a Borgo Nuovo nel cuore di Palermo ma probabilmente, per qualcuno, condannato per il “peccato originale” di un colore della pelle. Episodio di palese razzismo conclusosi nello stesso week end in cui i cori di alcuni tifosi romanisti allo stadio Olimpico accompagnavano i tifosi napoletani in trasferta.

A raccontarcelo era già nel lontano( e mai così attuale) 1984 l’amatissimo professor Bellavista in “Così parlo Bellavista”, pellicola cult dove nel ruolo di protagonista, e seppur con uno pseudonimo ma interpretando se stesso, il compianto e indimenticabile Luciano De Crescenzo.

All’epoca la questione razziale prendeva la dimensione “intraterritoriale”, quindi discostandosi dal colore di palle ma ponendo il fulcro sulla nota questione meridionale. Erano infatti i “nordisti” a vivere di preconcetti e luoghi comuni nei confronti del benevolo sud, seppur problematico ma pur sempre affettuoso, accogliente e colmo di talento. A distanza di oltre trent’anni la questione legata ad un latente razzismo si sposta oltre i confini territoriali, con concetti quotidiani nell’agenda culturali quali comunità europea o immigrazione che covano nella pancia del popolo visioni distorte e xenofobe che si sono dapprima palesate proprio nello sport e poi strumentalizzate in ambito politico.

Nulla cambia dall’Italia tristemente decantata da De Crescenzo, si sposta solo il focus nella ghettizzazione del diverso, nella lotta che dapprima era sociale e territoriale e poi diventa razziale, per l’appunto.

Ecco che torna il pallone che vive questa antica e fastidiosa intolleranza, i neri diventano oggetto di scherno e proprio il Sud, e Napoli, subiscono selvaggiamente slogan come “Vesuvio lavali col fuoco” e proprio la sopracitata “Napoli colera”.

Si, perché proprio la città partenopea è stata colpita dalla tragica malattia, l’ultimo contagio risale al 1973. Alcuni casi di gastroenterite acuta, poi diagnosticati colera, le cui origini legate proprio ad un cibo nostrano e di tradizione povera culinaria, come le cozze. Ai “qualunquisti da sfottò” però mancano alcune, importanti, informazioni, come il fatto che la partita di cozze contenente il batterio era di provenienza dalla Tunisia e che Napoli grazie ai celeri metodi della sanità locale fecero sì che la malattia potesse essere debellata in poche settimane.

Nulla viene ricordato rispetto alla Tunisia o a città come Barcellona, afflitte dal virus per circa due anni o comunque per città simbolo del nord come Milano flagellate dalla peste, periodi bui decantanti anche dalla letteratura come nei “Promessi Sposi” di Manzoni.

Accogliamo allora la cultura e l’informazione come arma suprema di eguaglianza, che possa partire dagli stadi, dalle curve, anima autentica popolare e che possa scorrere nella coscienza di una nazione intera, alle volte i populismi e il razzismo diventano più pericolosi di certe infezioni.