Achille Lauro ci suggestiona con la mitologia, ma chi è la protagonista della canzone?
Il terzo quadro di Achille Lauro al Festival di Sanremo è una performance di forte impatto. Una donna, sola, seduta sui gradini dell’Ariston. Il silenzio intorno a lei. E’ Penelope.
E’ Monica Guerritore ad accovacciarsi e dare voce alla sua attesa paziente. Per interpretare e completare un quadro tutto dedicato a una delle figure letterarie più celebri della mitologia greca: quella di Penelope, moglie di Ulisse, protagonista dell’Odissea di Omero.
L’attrice è simbolo di un passato stanco, una Penelope esausta di vestire panni che le sono stati attribuiti nel tempo e che lei ha indossato fingendoli adatti. Era lei a tessere la tela, ma dietro quel gesto ritmico e ciclico c’era ben altro. La pazienza e l’onestà erano virtù comode da cucire su una donna, moglie di un conquistatore astuto.
Chi è Penelope?
Penelope è la moglie di Ulisse, protagonista dell’Odissea, rimasta a Itaca durante il lungo viaggio del marito: con la sua scaltrezza e intelligenza riesce a mettere a punto uno stratagemma per non convolare a nozze con gli invasori, i Proci. Penelope promette infatti di prendere marito non appena terminata la lavorazione del sudario per il suocero Laerte, ma se di giorno tesseva la tela, di notte la disfaceva, prolungando così i tempi in attesa del ritorno del marito.
La donna ideale…
La moglie del protagonista viene presentata nell’Odissea come la sposa ideale: attende per vent’anni il ritorno del marito mantenendosi fedele e trascorre giorni e notti chiusa in camera a piangere. E’ talmente perfetta da risultare noiosa e e monocorde, e non a caso la letteratura occidentale le ha dedicato solo rare rivisitazioni, lasciandola dove la aveva collocata Omero: all’ombra dell’affascinante e avventuroso coniuge.
Ma cosa accade se Penelope stessa prende la parola?
Nel suo intenso monologo che ha preceduto l’esibizione di Achille Lauro con Penelope, l’attrice Monica Guerritore fa parlare Penelope stessa:
“Da quando sono morta ho imparato cose che avrei preferito non sapere, come quando si origlia dietro le porte. Ulisse mi ha raggirata, sostiene qualcuno. Si sapeva che era scaltro e bugiardo, ma non avrei mai pensato che avrebbe usato la sua astuzia anche con me. Non gli ero stata fedele? Non avevo aspettato, vincendo la tentazione, quasi un impulso naturale a comportarmi in un altro modo?
Cosa ho raccolto? Sono diventata una leggenda, un bastone con cui colpire altre donne, che non avrebbero saputo essere oneste, pazienti come me.
Ma io avrei solo voluto gridare: “Non seguite il mio esempio”. Ma io non sono più. Non ho più voce con cui parlare, non riesco a farmi capire nel vostro mondo fatto di corpi, di lingue, di dita. Non c’è nessuno che mi ascolta dall’altra parte del fiume, e se qualcuno dovesse raccogliere il mio bisbiglio, lo confonderà con le ebrezze che soffiano tra i giunchi secchi, con il volo dei pipistrelli al crepuscolo, con un brutto sogno.”
Da dove è tratto il brano del monologo? Non è stato indicato in trasmissione, né indicato dalle testate giornalistiche, ma a noi ricorda molto l’incipit di un romanzo celebre di Margaret Atwood, intitolato appunto Il canto di Penelope, edito in Italia da Ponte alle grazie.
Il canto di Penelope di Margaret Atwood
Questo l’incipit del romanzo dell’autrice canadese, nella traduzione di Margherita Crepax nell’edizione 2018 di Ponte alle Grazie:
«Non seguite il mio esempio» voglio gridarvi nelle orecchie – sì, nelle vostre orecchie! Ma quando cerco di gridare, la mia voce è quella di un gufo.
Ma quando gli avvenimenti principali si conclusero e tutto diventò meno simile a una leggenda, mi accorsi che erano in molti a ridere alle mie spalle – a sbeffeggiarmi, a inventare storielle sul mio conto, pulite ma anche sporche; mi avevano trasformata in una storia da raccontare, anche se non del genere che mi piace ascoltare su di me.
Che cosa può fare una donna quando una chiacchiera indecente viaggia attraverso il mondo? Se si difende sembra colpevole. Così, ho aspettato ancora un po’.
Penelope sul palco di Sanremo
Nella sua canzone, Achille Lauro recita così:
“Dovrei crescere e avere niente, boh, yeah
Cuci come Penelope, sette fatiche di Ercole, no mai
Dal paradiso alla nemesi
Quattro minuti a piedi, sì
Senza dire ’sta storia, no, non ha fine”
Oltre a Penelope, nella canzone di Lauro si fa riferimento anche a un altro incredibile personaggio della mitologia: l’eroe e semidio Ercole, corrispettivo romano del greco Eracle. Nella canzone si parla di sette fatiche (forse per intenderne una parte? Forse semplicemente per motivi di metrica?), perché le fatiche ricordate in mitologia sono in realtà 12.
Per espiare l’uccisione di moglie e figli a causa di un attacco di follia causato dalla dea Era, Ercole si mise al servizio del re di Tirinto e Micene, Euristeo, che gli ordinò appunto le 12 fatiche, 12 imprese impossibili a chiunque, ma possibili con la forza posseduta da Ercole.
“Insegnami com’è” chiede l’uomo Lauro alla donna Penelope, condannata dal giudizio degli altri . Ed è in questa richiesta di scambio che entra in scena il presente, Emma Marrone, donna, ancora incatenata agli stessi pregiudizi , ma forse più cosciente, consapevole e forte. Uno davanti all’altra, paradiso e nemesi, riflesso di se stessi, specchio della propria solitudine, perché “tu sei come me, che sei cresciuta come me, sola”.
Una statua in ginocchio ascolta allora la stessa storia di sempre, quella che esiste da molto prima di Penelope e che ha reso le donne proprio come il pop: “Presente, passato. Tutti, nessuno. Universale, censurato… Imprigionato in una storia scritta da qualcun altro”.
E sullo sfondo di una consapevolezza per la prima volta condivisa da uomo e donna, Lauro rimane inginocchiato forse lui stesso incompreso, proprio come tutte le donne che ha raccontato. In perenne attesa che qualcuno capisca, mentre il peso del mondo passa su altre spalle. Di donna.
In attesa che la storia non si ripeta più. E la tela si strappi. Per sempre.
“Insegnami com’è,
Insegnami com’è,
Insegnamelo”.
“Dio benedica gli incompresi”.