Il museo pubblico ha acquisito la sua forma moderna tra la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo e ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione delle coscienze.
Nasce come un luogo in cui una comunità di persone possa identificarsi e rappresentarsi, all’interno di una cultura, come quella europea, in cui l’idea dell’archiviazione è al centro della modernità, nel suo sfrenato desiderio di collezionare, preservare, classificare, etichettare e mostrare, al fine di costruire (piuttosto che solo rappresentare) identità nazionali e coloniali.
Il museo si forma di pari passo con una cultura che quasi impone i propri schemi e i propri costrutti culturali, nazionalisti e colonialisti, rendendoli universali per tutti e costruendo di continuo numerose differenze all’interno e all’esterno della nazione.
I musei del XIX secolo sono un mezzo per esercitare potere attraverso la costruzione del sapere: esibire artefatti e/o persone al fine di costruire, incorporare e comunicare specifici significati e valori culturali per costruire una norma di umanità – bianca, borghese e maschile – rinforzata così dall’esposizione di ogni tipo di “deviazione”: teste Maori, crani africani e di ogni parte del mondo, lo scheletro, il cervello e gli organi genitali di Saartjie Bartmaan soprannominata la Venere Ottentotta, ecc…
Questo è particolarmente evidente all’interno dei musei etnografici, in cui gli “oggetti” museali permettono agli occidentali di osservare mondi lontani e sconosciuti, tacendo allo stesso tempo storie e culture impenetrabili, coinvolgendo l’intero pianeta nella costruzione di un’unica forma di narrazione e decidendo quindi come una cosa verrà ricordata.
Pensiamo al museo come un luogo innocente, ma non è così…
Si tratta di un luogo di domanda, apparentemente vuoto, un contenitore statico dove si conservano “sopravvivenze”: un ospizio per oggetti che non servono più. Esso cerca, o almeno ci prova, a rappresentare ciò che è accaduto, seppure non esistano fatti oggettivi, ma ciò che è accaduto è anche ciò che è stato dimenticato, oscurato e negato ed in questo senso, l’autorità del museo è costretta ad assumersi la responsabilità di ciò che non riesce a rappresentare.
Il museo dovrebbe tenere aperto un canale di scambio e di relazioni con l’esterno, a partire dalla sua collezione ma senza fossilizzarsi su essa, deve essere il luogo “delle differenze culturali, il luogo dove conoscere l’altro e l’arcaico, per poi passare a riconoscere criticamente se stessi, la propria cultura, acquisendo quell’autocoscienza storiografica che è il messaggio ultimo del circuito museografico, oltre che l’irrinunciabile premessa ad ogni convivenza civile”, dice Vito Lattanzi.
C’è poi il fatto innegabile che il museo è museograficamente vivo: l’oggetto è poliglotta, parla molte lingue: quella di chi l’ha costruito, di chi l’ha fruito, di chi lo raccoglie, di chi lo espone, di chi lo guarda. Nel museo, queste voci, confluiscono, si mescolano, si sovrappongono, si scavalcano, alcune però, troppo deboli, si percepiscono solo come un bisbiglio.
Serena Palmese