Nonostante le nostre mappe da adulti, smarrirsi è un’esperienza sempre latente.
Passiamo gran parte del nostro tempo a conquistare, determinare, riconfermare le boe intorno alle quali muoversi in modo da non disperare nel tragitto tra un luogo e un altro.
Il rovesciamento di questa latenza è il senso dell’avventura, la «conquista dello spazio», l’ampliamento della nostra mappa mentale. Ma ci sono dei luoghi, degli ambienti, delle città che indossiamo con più agio di altri.
Capita di passeggiare per una città sconosciuta e sentire che ci calza bene, che suscita dei sentimenti di adeguatezza, ma anche il suo contrario e cioè di sentire il disagio di ritrovarsi in un ambiente che non ispira, che va stretto o ci deprime, è indifferente e angoscioso come un abito troppo largo in cui si incespica, perché il nostro corpo si aspetta un’affinità con le presenze fisiche circostanti e quando questa viene negata, il mondo che ci circonda diventa ambiguo e insopportabile, pericoloso e insignificante.
Il corpo, il nostro corpo, non è nello spazio, ma abita lo spazio, è fatto della sua stessa sostanza, ne è parte integrante. Tutto il corpo è l’organo del “senso spaziale”, sentire di essere qui è una percezione complessa ed unitaria difficilmente separabile dalla sensazione che il corpo ha di sé.
Quando ci si perde in una situazione ambientale che è tutta più o meno indifferenziata e indifferente accade che abbiamo a che fare con un black out dei sensi. Ci viene resa impossibile una «presenza» piena in un luogo. L’insieme dei nostri sensi si frammenta: alcuni sensi “notano” il posto, ma altri non hanno il tempo di goderne, di attivarsi in esso. Non sento quindi che la «mia presenza qui c’è tutta», può esserci un “consenso”, visivo, olfattivo, eccetera, ma non la presenza tutta.
È per questo che il nostro perdersi oggi è soprattutto un black out della sensibilità, l’impossibilità di una relazione metaforica tra noi e l’ambiente. Come se ci mancasse il tempo per apprezzare esteticamente non solo il luogo, ma noi stessi presenti in esso. Una città in cui i nostri corpi sono sottratti è una città «disincarnata» che non accetta che la nostra fisicità sia la prima architettura.
Noi riusciremmo ad ambientarci nello sconosciuto se non dopo esserci persi. La possibilità di “perdersi” in uno spazio e di percorrerlo senza fretta, potendo soffermarci su un dettaglio, su un volto, di poter ascoltare le conversazioni all’interno di un bar, ci permette di raccogliere una serie di informazioni che possiamo usare per qualificare un dato spazio. Qualsiasi spazio smette di essere un pezzo di terra che contiene oggetti solo nel momento in cui inizieremo a investigarlo, a comprenderlo e a scovare relazioni che esistono al suo interno. Ciò può avvenire solo ed esclusivamente nel momento in cui si abbandona la prassi della passeggiata a favore un’idea di vagare, di perdersi, seguendo le diverse suggestioni che questo vagare può produrre: la deriva.
La deriva si contrappone alla nozione classica di passeggiata o viaggio, è molto più simile al comportamento di quel prodotto della rivoluzione industriale che Charles Baudelaire chiama la “flânerie” (il passeggiare). Il termine viene coniato dal poeta nell’ambiente parigino, un ambiente che lascia spazio all’esplorazione non affrettata e libera da programmi.
Il protagonista di queste passeggiate è detto “Flâneur”, il gentiluomo che vaga per le vie cittadine, ovvero, per usare le parole di Baudelaire, un botanico del marciapiede, un conoscitore analitico del paesaggio che lo circonda. L’attore della tela Le buveur d’absinthe del 1859 di Eduard Manet incarna perfettamente la figura dell’uomo moderno. Il suo abbigliamento dimostra una certa agiatezza economica e una decisa attenzione per la moda del tempo che lo sottrae all’idea del clochard di strada.
Di lì a poco quel bevitore vagherà per le strade della città, e attraverserà senza meta un labirinto costruito dal suo stesso fluttuare diventando un individuo sempre in movimento e sempre più fragile.
Chi “deriva” rinuncia al modo convenzionale di spostarsi, adotta una strategia di passeggio indeterminato che lo porta a muoversi in maniera casuale all’interno di un territorio, lasciandosi andare alle sollecitazioni del terreno. Ecco come la città diventa una sorta di casa comune, di ambiente intimo, dove ogni soggetto ridona importanza a un luogo solo in base al suo vissuto e quello stesso spazio si mostra favorevole.
Serena Palmese