Da Boccaccio a Manzoni, le epidemie arrivano ai racconti novecenteschi
Dalle epidemie si guarisce, perché così le si può cantare. Ma non solo: sulle epidemie si fondano intere letterature, e canoni culturali, e tradizioni.
Pensate alla letteratura italiana, a quali sono i titoli in prosa che l’hanno fatta nascere o l’hanno resa adulta: il Decamerone di Boccaccio e I promessi sposi di Manzoni. Entrambi, a vario titolo, hanno a che vedere con la peste.
Nel 1348 a Firenze c’è la peste e si muore, bisogna fuggire dalla città. Dieci ragazzi lo fanno, occupano un casolare sulle colline, passano il loro tempo, mentre la piaga dilania la città e poi, a poco a poco, si affievolisce e scompare, a cantare, a ballare, e a raccontarsi storie.
Cento storie per dieci giorni, dieci storie al giorno: tanto basta perché passino la paura e la malattia. Le storie li tengono vivi e fondano un genere, introducono la cornice nelle raccolte di novelle in volgare, e insomma: grazie alla malattia, e all’idea di una quarantena, Boccaccio può inventare un modo di raccontare, di scrivere.
Tre secoli più tardi, nel Seicento, c’è un’altra peste. Stavolta la città è Milano e il libro che la racconta non è una raccolta di novelle, ma un romanzo, anzi, il romanzo – quello con cui ancora oggi la letteratura italiana deve fare i conti, perché ci ha insegnato a raccontare e ci ha dato una lingua per farlo, i Promessi Sposi.
La peste nei Promessi sposi occupa un posto capitale: arriva a Milano nel capitolo XXXI per via di un soldato italiano al seguito degli spagnoli e vi rimane per un pugno di capitoli talmente importanti e diversi dal resto del racconto che se ne parla quasi come di una parte autonoma del testo – i capitoli della peste.
Cosa succede in questi capitoli?
L’ambientazione si fa stretta: c’è qualche via di Milano, c’è il lazzaretto e poi la riflessione si fa più amara e insieme più storica: la ricerca e la punizione dei cosiddetti “untori” – ovvero dei colpevoli del contagio, quando è ovvio che di colpevoli non ce ne siano – muove lo sdegno di Manzoni, che addirittura espanderà questo tema in un libro a parte, un vero e proprio spin off del romanzo, La storia della colonna infame.
Manzoni usa i capitoli della peste per chiudere il romanzo. Se in Boccaccio l’epidemia faceva partire il racconto, gli dava il via, in Manzoni l’epidemia lo porta a conclusione.
Di peste muore don Rodrigo, il principale antagonista di Renzo e Lucia; muore anche il suo alter ego santo, fra’ Cristoforo, ma non prima di aver sciolto Lucia dal voto scellerato che le impedirebbe, qualora rimanesse valido, di sposare Renzo.
Gli sposi promessi si ritrovano, dunque, e lo fanno in tempo di peste, nel lazzaretto. È lì che, sostanzialmente, il romanzo si conclude, salutato, nel capitolo XXXVII – il capitolo dove la peste finisce -, da un diluvio che tutto lava e tutto benedice.
Insomma la peste è un momento fondamentale nei Promessi sposi per molti motivi: segna uno spartiacque nel romanzo italiano e segna un punto di svolta nella vicenda dei due fidanzati lecchesi. Usciti dal lazzaretto, non rimane che metter su casa e scrivere la parola fine.
Le pandemie come sfondo dei racconti
Quando c’è un morbo, una piaga, dunque, sembra la letteratura che lo racconta debba fare i conti con sé stessa, e per farli si ripensa, si reinventa.
E il Novecento? Il Novecento ha usato le malattie e le pandemie come sfondo per dei racconti morali.
Ha ambientato in un immediato futuro – o in un universo parallelo – le storie di contagio, creando un genere a parte: si parla ora di distopia, ora di genere post-apocalittico, ora più apertamente di fantascienza.