«Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti…
Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato.
Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo.
Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo. I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria (…) Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi».
Così Georges Perec in Espèces d’espaces analizza lo spazio che ci circonda. Uno spazio che parte dal nostro stesso corpo ed è tutto quello che siamo e non siamo, in questo sottintende in realtà che lo spazio del vissuto non è determinato dagli oggetti in sé, ma dalla visione che ne abbiamo, sempre e solo soggettiva.
Perec invita a fare dello spazio il «proprio» spazio, a non accettare l’idea imposta che la casa, l’abitare, appartengano a un solo modo di essere, ma siano piuttosto legati al contesto, alla pratica e per far sì che un luogo pubblico sia anche un po’ un nostro luogo intimo propone l’utilizzo della sua tassonomia, del suo sistema di catalogazione o di osservazione minuziosa che suggerisce un sottile senso di proprietà intellettuale dello spazio.
Ma «(…) sappiamo vedere quello che è notevole? C’è qualcosa che ci colpisce?» chiede sempre Perec.
Niente ci colpisce, non sappiamo vedere.
Siamo intrappolati in spazi che non ci appartengono e in cui ci troviamo disorientati con oggetti che non rispondono e che non si raccontano.
Il destino di molti oggetti che ci circondano sembra oggi segnato dall’invisibilità, dalla velocità e l’insignificanza. Le cose appaiono e scompaiono in tempi brevi, sostituite in fretta da altre in un avvicendamento quasi compulsivo. Spesso non c’è il tempo di creare un legame con esso, di imprimervi la propria impronta, di farli entrare nella propria storia e autobiografia.
Questa fluidità eccessiva impoverisce i punti di riferimento, riduce gli angoli rassicuranti nei quali rifugiarsi, toglie bussole e segni che definiscono la quotidianità. Gli oggetti sono dunque forti sollecitatori di evocazioni, storie e racconti e possono aiutare a immedesimarsi nell’altro condividendo narrazioni nascoste. Un oggetto può rappresentarci, diventare la metafora che esprime emozioni, storia, sentimenti.
Per esempio, lo spazio del museo nasce con l’idea di accumulare tutto, di fermare in qualche modo il tempo o, piuttosto di farlo depositare all’infinito in un certo spazio privilegiato, l’idea di costruire un archivio generale di una cultura, la volontà di rinchiudere in un luogo ogni tempo, ogni epoca, ogni forma e ogni gusto, l’idea di costruire uno spazio per ogni tempo, come se questo spazio potesse essere definitivamente fuori del tempo e questa è un’idea tutta moderna: il museo è un luogo in cui il nostro corpo si perde, perché è sì un luogo aperto ma che ha la proprietà di far restare fuori, si ha l’impressione di accedere a quanto c’è di più semplice, di più offerto, e in effetti si è al cuore del mistero.
Serena Palmese