Quando, a cinquantacinque anni, Collodi iniziò a scrivere le prime puntate della storia di Pinocchio sul Giornale per i bambini, aveva già prodotto testi per l’insegnamento della geografia e della grammatica in chiave romanzata e divertente, perfettamente in linea col suo pensiero:
«Io chiamo belli i libri che mi piacciono, e se, oltre a piacermi si provano anche a volermi istruire, chiudo un occhio e tiro via. All’opposto chiamo brutti i libri che mi annoiano. Sarà un pregiudizio ma io credo che la lettura dei libri noiosi sia nociva alla salute.»
Dunque, Pinocchio è sì un libro divertente, pieno di avventure, di battute ironiche, ma non è un libro leggero, soprattutto non lo è con l’avanzare della storia quando l’atmosfera si fa tragica e triste, nonostante il lieto fine.
Fin dall’inizio, il romanzo attanaglia l’attenzione del lettore perché è pieno di fatti e azioni. Pinocchio ne combina di tutti i colori, inizia la sua vita trasgressiva, insensibile ai sacrifici del suo babbo-falegname che vive nella miseria più nera, ma si priva dell’indispensabile per il bene del figlio-burattino.
Durante tutta la vicenda si accumulano sulle spalle di Pinocchio una serie di responsabilità, colpe e disgrazie a non finire generate da tutte le situazioni in cui casualmente viene a trovarsi seguendo l’istinto, senza ragionare, proprio come piacerebbe fare ai bambini, ai ragazzi e magari anche agli adulti. Senza cioè pensare, valutare le conseguenze delle proprie azioni, ma seguendo il piacere immediato che la vita offre loro. E proprio mentre indugia, inventa e intreccia le avventure del burattino, l’autore è pronto a servire su un piatto d’argento la propria morale, prevalente nel suo periodo storico e in quella società che vuole per i bambini un’infanzia breve e formativa.
Ma fin da subito si intravede in Collodi una certa facoltà di percepire l’immaginario ed il vissuto emotivo dell’infanzia, si percepisce una mediazione tra la voglia irrefrenabile di salvaguardare quel Sé bambino ed una narrazione con intenti pedagogici, tant’è che l’autore sembra quasi strizzare l’occhio a quello spirito un po’ ribelle e malandrino che ogni bambino percepisce e riconosce dentro di sé:
«Davvero, — disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio, — come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri: tutti: anche i Grilliparlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: “Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!»
dice Pinocchio, fortemente sicuro di sé. Così è inevitabile che il lettore si immedesimi in quell’impulso liberatorio che Pinocchio sembra assaporare quando dà un calcio a tutti i doveri e i buoni propositi, per seguire la via del piacere e del gioco.
Eppure, dopo qualche sorriso in cui il nostro cuore insegue la stessa felicità di Pinocchio, non si può far a meno di pensare al prezzo da pagare per quelle scelte così leggere e avventate. Nulla verrà perdonato a Pinocchio, nessuno sconto, nessun “bonus scansa punizione”. Svanisce ben presto l’alleanza dell’autore che dà spazio al sentimento moralista di chi non approva più quello stare sempre fuori dalle regole totalmente trasgressivo. Come se le punizioni, che il burattino riceve per ogni sua marachella, dovessero avere un effetto repressivo sul lettore.
Ad un bambino si chiede di obbedire ai grandi e gli si ordina che lo faccia fino a quando non diverrà un adulto diligente e consapevole di sé.
La curiosità dei bambini è una caratteristica scomoda per gli adulti, vista soprattutto come una minaccia che li fa allontanare da casa in cerca di stimoli e spiegazioni. Collodi giustappone così la lezione morale degli adulti alle risposte spontanee che un qualsiasi bambino darebbe per obbiettare e progettare una via di fuga dalle regole.
Dietro la figura del burattino c’è il bambino dell’epoca collodiana, inesperto e bramoso di mettere il naso fuori dalla porta di casa per esplorare tutto quello che c’è appunto al di fuori della sua piccola comfort zone. La lotta di Pinocchio tra il dovere che gli viene imposto ogni momento e il desiderio di scoprire il mondo è una lotta incessante, che non ha mai fine e soprattutto sembra non lasciare mai spazio alla spontaneità.
Non c’è punto d’incontro perché l’adulto è fermo nella sua posizione, non ascolta le suppliche del più piccolo, ha le orecchie e il cuore tappati e per il bambino c’è solo la via dell’adeguamento che porta, inevitabilmente, alla rinuncia.
In maniera più ampia e completa, Collodi vuole sviluppare e approfondire gli aspetti emozionali del conflitto interiore di un bambino, motivo per cui la storia di Pinocchio è ricca di dialoghi introspettivi per rendere particolarmente forte lo scavo psicologico.
L’autore concede più spazio alla caratterizzazione dei personaggi presentandoli attraverso le loro stesse parole così da sondarne più in profondità l’animo per aumentare il coinvolgimento e la partecipazione, soprattutto emotiva, da parte del lettore.
Tutto è un crescendo, l’introspezione si sviluppa di tono e qualità di pari passo con la vicenda e infatti Pinocchio descrive e definisce se stesso solo alla fine del libro, senza più accenti ironici e vaghi.
Ma per non lasciar scampo al burattino Pinocchio, Collodi escogita un contrappasso terribile per correggere l’abitudine dei bambini a dire bugie: il naso che si allunga e denuncia la menzogna.
Come può sentirsi un bambino di fronte un adulto che riesce a vedere con tanta chiarezza fin dentro la parte più intima della propria anima?
Violato, è chiaro! Dominato da un adulto contro il suo volere, completamente messo a nudo per una cosa che è soltanto sua e di nessun altro.
Ne emerge una società che tende a coltivare l’autorità del più grande, anziché promuovere un rapporto di ascolto e sostegno.
Di fronte a quest’onnipotenza il bambino si sente piccolo, più piccolo di quanto appare allo specchio. Non resta che adeguarsi e diventare sincero, non per libera scelta, non per fiducia, ma per necessità.
Collodi ha voluto fare di Pinocchio il rappresentante di ciò che riteneva pienamente umano. Qualcuno cioè che si evolve in base alle esperienze, grazie alla capacità di ascoltare il proprio cuore, che si prende molti rischi, che mette addirittura in pericolo la propria vita, pur di rispettare la propria natura ribelle e anticonformista.
E soprattutto che procede nella vita per prove ed errori, che ne subisce personalmente le conseguenze negative, che nel momento in cui crede di ottenere un successo, al contrario perde tutto.
Serena Palmese