Combattere per il proprio diritto a essere
-Fare coming out è stato spaventoso. Ricordo le mie prime volte nei bar gay, in piedi contro il muro, come un tredicenne ad una festa delle medie-
Così dichiara Randy Roberts Potts, nipote di uno dei predicatori americani più influenti, attualmente insegnante di inglese in una scuola media.
In alcune storie, dichiarare a se stessi e al mondo circostante la propria identità, può diventare la battaglia più difficile da affrontare nell’arco della propria esistenza.
Il punto è questo: molti ragazzi tengono tutto dentro, e mentre alcuni diventano rabbiosi e cupi, altri diventano concentrati di energia nervosa. Irrequieti, spiritosi, si nascondono sempre dietro il proprio umorismo.
Sentirsi a proprio agio diventa un traguardo irraggiungibile, fin quando non si comincia a capire che sussiste qualcosa di più profondo, rispetto alla semplice persona che gli altri vedono dall’esterno.
Non si riesce neppure ad individuare cosa fosse la sensazione di non essere quello che gli altri, soprattutto i genitori, si aspettano. Si avverte qualcosa di sconosciuto, che rende inesorabilmente colpevoli.
I ragazzi gay vivono abbracciati ad un rumore di fondo, a cui ti puoi abituare, ma che comunque permane e non dà tregua. Sanno che è necessario chiarire, prima o poi la propria identità: in un momento certus an, incertus quando, ma che prima o poi arriverà.
Si continua a rinviare sine die l’attesa burrascosa, fino a temere che, una volta venuta a galla la verità, potrebbero nascere conseguenze gravi: perdite irrimediabili, lacerazioni non ricomponibili, disgrazie varie.
Perché una delle cose più difficili che abbiamo da fare noi omosessuali da adolescenti, è comunicare a genitori eterosessuali il fatto che noi siamo diversi da loro.
E’ una prova che caratterizza poche minoranze: in ogni gruppo umano, l’arrivo di un bambino è una festa e il bambino trova nella casa e nella famiglia la conferma e la validazione della propria identità, l’orgoglio di essere quello che è.
Per molti gay le cose non stanno così, e anzi la casa è lungi dall’essere il nido che dovrebbe; diventa il primo luogo nel quale ci si confronta con la disapprovazione, l’esclusione, la condanna, qualche volta la perdita.
La maggior parte delle persone, fin quando una cosa non succede a loro, non li tocca in prima persona, tendono a pensare: Ah, non importa, è un problema loro, o addirittura: Finché lo fanno a casa loro per me non è un problema. Una grandissima ipocrisia.
Non sarebbe più intelligente pensare: E se succedesse a me? Se io per strada non potessi baciare la mia donna, il mio uomo?
Nascondere la propria identità
Nascondere una così grande parte richiede di avere una moltitudine di filtri verbali, emotivi e razionali.
Ciò che amiamo è molto più di ciò con cui facciamo l’amore. Nascondere chi si ama significa nascondere chi si è.
Un sacco di ragazzi, molto diversi l’uno dall’altro, sono vittime di bullismo, ma i bulli sono tutti uguali. Vigliacchi pieni di rabbia e vergogna che si sfogano su chi è diverso da loro:
più piccoli, più intelligenti, disabili, immigrati, gay, ragazze che non rispecchiano lo stereotipo della cheerleader, chi ha un accento diverso, chi ha due madri, due padri o genitori con problemi mentali.
Ma la verità è che siamo stati creati a immagine di Dio.
Ora tocca a noi esserne all’altezza. Non dimenticando mai che, come risuona dalle parole di Marcel Proust:
Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.