Nel Maggio del 2012, il comico e writer americano Mark Malkoff si è cimentato in una insolita sfida, decidendo di guardare nel giro di un mese quanti più film possibili, in streaming e in questo caso tramite Netflix.
Provò a ricavare quello che poteva essere il massimo valore possibile al suo abbonamento mensile alla piattaforma (allora 7,99$), riuscendo a vedere 252 pellicole, la media di otto al giorno, arrivando così alla somma incredibilmente bassa di tre centesimi a titolo.
L’impresa, ovviamente fatta propria anche da Netflix, si servì così di una pubblicità informale per la società e reclamizzò anche l’ampia selezione di titoli disponibili.
L’attore, nell’intervista che ne seguì “l’impresa”, pose l’accento proprio sulla vastità di offerta, a tal punto da asserire che avrebbe potuto ricoprire diverse vite di intrattenimento, indicandoci che gli algoritmi di raccomandazione del servizio suggerivano titoli che generalmente lo soddisfacevano. L’esperimento fu anche strettamente collegato agli strumenti di social media che tanto hanno rivoluzionato la cultura cinematografica, promuovendo attivamente la sua impresa su Facebook e Twitter, sollecitato da consigli degli ammiratori e da follower.
Da sottolineare, infine, la capacità di mobilità dei dispositivi sfruttando posti differenti nel corso dell’impresa. A un certo punto del suo esperimento, ad esempio, Malkoff si ritrovò a guardare St.Elmo’s Fire sul suo Iphone mentre l’attore Andrew McCarthy lo scarrozzava per Central Park.
Il consumo di media, oltre che ricco nella sua varietà di offerta di consumo, è diventato anche altamente individualizzato, con gli utenti in grado di accedere ai film e show televisivi praticamente in ogni posto dove sia disponibile una connessione internet. Queste pratiche, per quanto individualizzate, sono però influenzate dai nostri specifici contesti di visione e rinforzate dall’ambiente mediale che collettivamente produciamo tramite le decisioni sui dispositivi da comprare, gusti condivisi o contesti, e persino tramite la nostra ubicazione geografica. Diventa quindi consuetudine decidere di guardare fuori dal normale orario di programmazione, pratica nota come time-shifting, che ha alterato in modo sostanziale la maniera di guardare la tv.
Rispetto a questa flessibilità di visionare i contenuti David Harvey ci parla del concetto di “lavoro flessibile”, l’idea per cui ci si aspetta che gli impiegati lavorino secondo orari irregolari, rubando brevi momenti di svago e in molti casi portandosi il lavoro a casa.
Ma l’impatto della cultura on demand diventa talmente radicale nell’odierno impianto sociale da assurgere al ruolo di “babysitter elettronico”: possibilità fornitaci da un’ampia scelta di contenuti capaci di intrattenere – e in qualche maniera istruire – i propri figli. Questo riconoscimento del ruolo cruciale dei contenuti per l’infanzia ha spinto diversi portali di media digitali a concentrarsi sul conseguimento dei diritti di questi contenuti e persino ad adattare le loro piattaforme ai bambini, per esempio il massiccio investimento di Amazon sull’infanzia o Netflix con contenuti popolari per gli adolescenti.
Per spiegare queste nuove formule di convergenza facciamo riferimento alla “scatola dei cavi” ovvero l’idea in cui molti di noi posseggono scatole o armadietti contenti vari cavi, connettori, router weirless, adattatori, alimentatori e altri strumenti che permettono che “i media saltino da una piattaforma all’altra”.
Si pone di conseguenza l’interrogativo sul valore della centralità televisiva rispetto a quella che potremmo definire l’età classica e per quella che potremmo quindi indicare come la terza era televisiva, sconvolta dall’arrivo del digitale e della “possibilità del modello a sottoscrizione”.
Possiamo però dire che se l’idea di una televisione a rischio di sparizione è piuttosto in anticipo sulla realtà, se non del tutto priva di fondamento, i canali generalisti, per quanto ben lontani dai numeri dell’età classica, continuano a raccogliere più spettatori dei canali via cavo, Netflix o Youtube. C’è quindi una tendenza nettissima che va a svantaggio dello schermo televisivo, ma sembra anche che la strada sia piuttosto lunga.
La televisione non sta affatto sparendo, ma i mutamenti da essa subiti costringono a ridefinire il concetto di televisione, intesa non come tecnologia ma come un insieme di pratiche sociali. Dobbiamo adesso riconoscere la compresenza di molteplici “modi della televisione”, usi diversi che investono più tecnologie e più funzioni sociali.
Quindi da un lato avremo il sopra citato fenomeno di curd cutting, metafora del “tagliare la corda” che si fonda sull’idea di liberazione: gli utenti sono liberi dalla loro dipendenza alla televisione cable, avendo a disposizione nuove forme di mobilità. Gli utenti, soprattutto i più giovani vanno sviluppando esperienze di visione personalizzata attraverso un mix di servizi on demand e di download digitale. Al contempo, dall’altra parte, è evidente come la televisione non sia stata abbandonata del tutto a una certa riluttanza attribuita all’abitudine di essere abbonati e al senso di familiarità della televisione tradizionale.
Serena Palmese
Fonte copertina ansa.it