Durante gli anni di studi ed esperienze, Rodari osservava, scriveva ed elaborava un suo pensiero sulla scuola.
La sua idea di fondo è che la scuola non è solo il luogo dove il maestro e il bambino lavorano: la scuola comprende i genitori, i maestri e i professori, le biblioteche, i Comuni, la televisione, tutto.
Tutto è educante e influisce in modo positivo o negativo sui bambini, sui giovani e sugli adulti.
Una scuola così “grande” non può essere limitata al leggere, scrivere e far di conto, ma deve accogliere la vita del bambino e le sue passioni in un confronto continuo di esperienze, sogni e progetti: concepire ideali e imparare ad amarli sopra ogni cosa, questo è il punto.
Intendo per «passione» la capacità di resistenza e di rivolta; l’intransigenza nel rifiuto del fariseismo, comunque mascherato; la volontà di azione e di dedizione; il coraggio di «sognare in grande»; la coscienza nel dovere che abbiamo, come uomini, di cambiare il mondo in meglio, senza accontentarci dei mediocri cambiamenti di scena che lasciano tutto com’era prima: il coraggio di dire di no quand’è necessario, anche se dire di sì è più comodo, di non «fare come gli altri», anche se per questo bisogna pagare un prezzo (…) Rimane la necessità, il dovere, di comunicare loro non solo il piacere della vita, ma la «passione» della vita; di educarli non solo a dire la verità ma ad avere la «passione» della verità, eccetera.
Vederli felici non ci può bastare. Dobbiamo vederli «appassionati» a ciò che fanno, a ciò che dicono, a ciò che vedono. Io non dico che bisogna portare i ragazzi a partecipare agli scioperi. Non dico nemmeno che si debba a tutti i costi «far politica» con loro. Dico, che oggi più di prima, oggi più che mai, i nostri figli hanno bisogno di esperienze che destino in loro quella che ho chiamato la «passione»: esperienze, non discorsetti, perché le parole non possono sostituire l’esperienza.
L’idea è quella di una scuola in cui il bambino vi possa entrare intero e restare intero, sviluppando non solo la capacità di ascoltare e di ripetere, di imparare a leggere e a scrivere, ma anche la capacità di pensare, progettare, verificare, di sbagliare e di correggere l’errore; una scuola che utilizzi il patrimonio di intelligenza e di fantasia che ogni bambino possiede.
Proprio in Emilia-Romagna il discorso sulla qualità della scuola è andato avanti prima che altrove, soprattutto se parliamo di scuola dell’infanzia. Lo sviluppo della qualità della scuola ruota intorno al bambino per sviluppare le sue potenzialità in tutte le direzioni; a Bologna, per esempio, per le bidelle della scuola dell’infanzia sono stati tenuti dei corsi sulla formazione del pensiero logico del bambino, sulla maturazione del linguaggio. Ora io dico che quando abbiamo una scuola che riesce a coinvolgere le bidelle (persone che ci sono state sempre solo per pulire, fare da mangiare, tenere ordine) e le coinvolge in un’attività educativa ad alto livello, allora vuol dire che siamo molto avanti sul terreno della qualità.
Un altro aspetto positivo del contesto emiliano è il tipo di gestione sociale che viene sperimentato, basato appunto sul coinvolgimento del quartiere, della popolazione, della città, delle forze sociali, non solo nell’amministrazione burocratica e nella gestione materiale della scuola, ma nella gestione di tutta l’attività educativa.
Fu proprio in quest’ambiente che Gianni trovò terreno fertile per le sue aspirazioni convinto che «questa scuola può nascere, se si dimostra con i fatti che è possibile (…), nasce se si convince la gente, il popolo, le masse, con l’azione, che è possibile». Motivo per cui in un’impresa educativa il programma non dovrebbe essere l’elenco delle cose che ci si aspetta di ottenere dai bambini, ma di quelle che dovrebbero esser fatte per essere utili: «Dovremmo elaborare regole per il nostro comportamento, non per quello dei piccoli: i quali, se messi in condizione di farlo, sanno benissimo inventarsi le loro regole, quelle di cui hanno veramente bisogno, e rispettarle.
Basta guardarli giocare, cioè muoversi all’interno di regole liberamente scelte, liberamente accettate, e accettate non perché fanno piacere a noi, ma perché fanno piacere a loro. I bambini non dovrebbero fare niente perché sono costretti, o perché vogliono piacerci, o perché ci vogliono bene, o perché hanno paura di noi» spiega Rodari perché nella realtà essi crescono tra ordini e divieti di «fa questo» e «non fare quello» e a scuola ci vanno perché ci sono mandati. Bisognerebbe trasformarla in un luogo dove sono contenti di andare, un luogo in cui progettare qualcosa significa realizzarla, proprio come i giochi che s’inventano. Se il progetto è loro, nato da loro, la fatica non li spaventa e a scuola ci torneranno molto volentieri.
Rodari si schiera apertamente dalla parte dei bambini e del loro diritto ad avere una famiglia e una società che li ascolti e li aiuti a crescere, giocando e ridendo. Soprattutto ridendo.
«È più importante farlo ridere – spiega Rodari – che rilegargli chi sa quali misteri… quali segreti. Il dialogo è ridere insieme… Ridete con lui e sarà vostro per (tutta) la vita».
«Ma come si può far scuola anche ridendo?» è la domanda di tanti, sicuri del proprio buon senso di uomini d’ordine. Infatti, una volta la scuola era così: «a scuola non si parla, non si ride, non ci si muove, non si copia, a scuola il corpo non serve e non si dicono parolacce».
Questa, diciamo oggi, è la brutta copia della scuola seria, eppure per tanti docenti la scuola seria è ancora questa.
Sarebbero necessari… quanti Rodari per far sì che via via tutta la scuola diventasse diversa da com’era una volta? Da com’è ancora adesso?
Anche perché non è vero che un tempo la scuola era più seria (era la scuola dei privilegiati), che i ragazzi di una volta leggevano di più (la maggioranza dei ragazzi non imparavano nemmeno a leggere), i ragazzi di una volta erano più educati (facevano il baciamano al padre e davano del tu ai domestici), i bambini di oggi hanno troppo (non hanno spazi per giocare e scuole adeguate alle loro esigenze): «L’idea che la scuola debba servire ad addestrare i bambini alla fatica e all’omologazione è un alibi pericoloso offerto a chi vuole evitare ogni cambiamento».
Dagli scritti è chiaro quale tipo di educazione aveva in mente il nostro maestro: la sua è una scuola che comprende l’universo educativo, dalla famiglia all’ambiente sociale, dalla scuola alla televisione. Per questo dobbiamo a lui anche l’introduzione nella letteratura giovanile di temi dimenticati dai molti, quali la giustizia sociale, la pace e l’amicizia tra popoli. Esattamente come avviene per Il pianeta degli alberi di Natale in cui tutta la storia è un invito all’amicizia e al cambiamento e una battaglia alla violenza: un’organizzazione di cavalli a dondolo cattura bambini terrestri, tra cui Marco, sempre arrabbiato e in conflitto con i “grandi”. Vivendo su quel pianeta Marco impara l’ottimismo e la tolleranza, l’amore e la diversità, la pace e il valore dell’amicizia e, una volta tornato sulla terra, decide di comportarsi meglio (anche solo un po’!).
Rodari propone così temi nuovi, come si legge dalle filastrocche I colori dei mestieri e Gli odori dei mestieri in cui introduce le problematiche legate al mondo del lavoro e dei lavoratori.
Più volte Rodari ha ribadito di odiare la letteratura “commovente”, quella fatta di semplici trucchi per spremere lacrime. Per Rodari «l’efficacia educativa non è nelle lacrime, quanto nelle emozioni e commozioni che possono nascere dall’incontro con certi aspetti della realtà: con l’operaio che sciopera, per esempio, piuttosto che con il mendicante che tende la mano; con problemi che sollecitano una riflessione lunga e magari faticosa, invece che con scenette da “buona azione” quotidiana».
Il bello è che Rodari non presenta ai bambini un mondo fatto di sogni e di utopia, ma è sincero inviando ai suoi lettori anche dei messaggi di speranza; non offre lezioni “seriose” ma stabilisce un rapporto d’intesa e fiducia.
E allora ditemi, quanti Rodari servirebbero?
Serena Palmese
Copertina Bari Today